LA (SOLITA) SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA
Ovvero: la precarietà come sistema che si autoalimenta
In questi giorni di emergenza sanitaria è diventato fatto sociale il problema delle persone senza garanzie di reddito, proveniente da tipologie lavorative precarie o addirittura occupate in nero. Improvvisamente o quasi ci si è accorti che nel Sud Italia, ma non solo, esiste uno spettro occupazionale ampio che va dal lavoro a sopravvivenza marginale, fatto di collaborazioni, consulenze e simili erogate al netto delle più elementari garanzie, fino al lavoro più che sommerso, basato sull’arte di arrangiarsi, sulla quotidiana capacità di sbarcare il lunario in nero o in qualsiasi altra maniera.
Peccato che ad accorgersi di ciò e a prospettare interventi di prontissimo soccorso e futuri scenari di correzione, siano quegli stessi attori politici (non sempre come persone fisiche ma certamente come incubatori ideologici) che per anni hanno elaborato politiche del lavoro devastanti sia in termini salariali che di diritto, e, se non le hanno elaborate, le hanno avallate con silenzi di complice connivenza.
Fa specie sentir parlare di questo la stessa politica che ha permesso quando non caldeggiato, l’applicazione selvaggia e spesso ingiustificata di contratti di collaborazione (a progetto, co.co.co, e co.co.pro) che mascheravano prestazioni continuative ma che in questo modo scaricavano sul lavoratore tutta una serie di oneri (ferie e malattie non pagate, contributi previdenziali ridicoli e eventuali pensioni mai esigibili).
Reclamano interventi efficaci gli stessi che hanno fatto lievitare il popolo delle “false partite IVA”, persone costrette a diventare “piccoli imprenditori di sé stessi” per inventarsi collaborazioni a costo zero in situazioni di lavoro continuativo.
Ci corrono in soccorso quelli che hanno reso la precarietà lavorativa un sistema di vita, condannando una generazione all’infinito rincorrere della “economia della promessa”, quella che per anni ha sviluppato perversi meccanismi di reclutamento di lavoratori a salario minimo con spese e rischi a proprio carico, in cambio della remota possibilità di una definitiva contrattualizzazione.
Si ergono a difensori della causa quelli che hanno inventato il lavoro flessibile (solo in uscita però) dove il termine stava ad indicare la capacità del lavoratore di accettare tutto il possibile in termini di salario orario e condizioni di lavoro, tenendosi pronto all’evenienza che la collaborazione si potesse interrompere improvvisamente e senza sistemi di protezione.
Pontificano gli stessi che hanno prima pianificato e poi permesso paghe orarie di 5 o 6 euro ai “bamboccioni” dei call center, che hanno definito “choosy” coloro che provavano a criticare questo sistema di lavoro asimmetrico, dove c’è chi ha il totale controllo contrattuale – sia economico che psicologico – sulla persona. Gli stessi che dicevano che per trovare lavoro era più funzionale andare alla partita di calcetto piuttosto che inviare un curriculum, e prima di loro quelli che “con la cultura non si mangia” e che quindi hanno smantellato da capo a piedi l’istituzione scolastica, creando precari a vita nel corpo insegnante, costose scuole di specializzazione che poi non servivano più a diventare insegnante, crediti formativi, concorsi abilitanti per i già abilitati e mille altri strumenti per rimandare sempre al poi le stabilizzazioni.
Tutto ciò fatto sempre in nome della “economia della promessa”, della disponibilità (sempre della parte più debole) al grido di “meglio questo lavoro che niente”
Queste anime belle oggi corrono in soccorso di una generazione devastata, che si è ritrovata disoccupata senza batter ciglio e che si ritrova a chiedersi come farà se la collaborazione non ripartirà. Possiamo scommettere, certi di vincere, che questi stessi tra qualche mese ci verranno a chiedere “sacrifici e disponibilità all’adattamento” per far ripartire l’economia, continuando a creare strumenti precari, a smantellare quel poco di Stato sociale rimasto in piedi finendo solo per far aumentare la forbice sia economica che sociale creatasi tra garantiti e non garantiti, forbice che è stata l’elemento caratterizzante delle politiche del lavoro dagli anni ’90 in poi e che ha generato questo stato di cose: la precarietà come sistema che si autoalimenta.
Stefano Giusti
Vice Presidente Associazione ATDAL Over 40
31 marzo 2020