Il 2018 si è chiuso con l’approvazione della Legge di Bilancio che contiene, tra gli altri provvedimenti, anche quello relativo alla misura definita “reddito di cittadinanza”.
Atdal Over 40 ha sempre denunciato l’anomalia – tutta italiana – della mancanza di una misura di sostegno presente da anni in tutti gli altri Paesi d’Europa ed ha dato il proprio fattivo contributo, sia nel 2013 partecipando alla campagna di raccolta firme per l’istituzione anche in Italia del reddito minimo garantito (per info: https://bit.ly/2Qrl1Sq ), sia nel 2015 intervenendo in audizione e depositando agli atti della Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato un parere scritto (info: https://bit.ly/2JlcroK ) su alcuni disegni di legge sul reddito minimo e sul salario minimo allora in discussione in Parlamento (ovviamente mai calendarizzati per il dibattito in Aula, a causa della contrarietà dei partiti che in quel
momento avevano la maggioranza). Il provvedimento del Governo Conte è sicuramente un passo avanti considerando il nulla o quasi da cui si veniva (il reddito d’inclusione varato dal Governo Gentiloni era largamente insufficiente ad affrontare il problema della povertà, per un commento critico leggete qui: https://bit.ly/2C71X6K ), ma va letto nella giusta ottica. Chiamarlo “Reddito di Cittadinanza” è sbagliato e, soprattutto è lontano dai veri significati di questa misura. La misura approvata è solo un sostegno, limitato e non certo universale, destinato a una categoria molto ristretta di persone che hanno perso il lavoro. Senza fare la filologia del significato del reddito di cittadinanza (chi è interessato può ampiamente documentarsi su https://www.bin-italia.org per capire le differenze tra un “reddito universale di base” e un “sostegno al reddito”), teniamo come associazione a spiegare quali sono le ragioni che ci portano a considerare la misura del nuovo Governo come un provvedimento limitato e soprattutto lontano dall’obiettivo ideale del Reddito di Cittadinanza.
A cosa serve un reddito di cittadinanza universale?
E perché si deve pensare a una forma di riconoscimento per tutti?
Il cavallo di battaglia degli oppositori alla misura del Governo, e in generale alle forme di reddito universale, è la solita frase “così le persone smettono di lavorare”. Per smontare questo trito, triste e noioso luogo comune basterebbero i dati Istat 2017 che potete scaricare a questo link: https://www.istat.it/it/archivio/217650. L’ente statistico (che in quanto pubblico e “super partes” dovrebbe dare garanzie di imparzialità ed obiettività) definisce come soglia di povertà assoluta quella equivalente a una cifra inferiore ai 742,18 euro per un adulto (residente nel Centro Italia) mentre la soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti ha come cifra cumulativa quella di 1.085,22 euro. Secondo i dati che sono stati forniti fino ad oggi, il reddito di Cittadinanza ammonterebbe per un singolo a 500 euro (con integrazione fino a 250 euro al mese per chi ha un affitto/mutuo) fino ad arrivare al massimo di 2.028 euro per una famiglia di 3 adulti e due figli under 14 (circa 405 euro a persona). Sfido chiunque a pensare di poter campare di rendita con queste cifre, e già questo basterebbe a smontare la litania dei “fancazzisti mantenuti dallo Stato”.
Ma come associazione preferiamo andare oltre i numeri e ci permettiamo di dire che l’attivazione di un VERO Reddito di base UNIVERSALE permetterebbe invece alle persone di poter cominciare a lavorare sul serio, e non essere sfruttate.
In Italia si è assistito – con la benedizione di governi, partiti e sindacati di ogni colore – ad un silente e massiccio processo di sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro pagata ai limiti della sopravvivenza (in qualche caso anche …. non pagata). Esempi? Call center da 1 euro l’ora; ragazzi in bici che per pochi soldi consegnano cibo a domicilio; docenti delle scuole private pagati 7 euro l’ora; fattorini che consegnano pacchi con spese di trasporto a proprio carico; rapporti continuativi di lavoro subordinato “mascherati” con partite Iva ed oneri a carico del lavoratore; straordinari non pagati ecc. Vi è poi lo sterminato territorio della «formazione» che sempre più include la costrizione al “lavoro gratuito”. Sono in continua espansione i tirocini obbligatori e gli stage previsti dai corsi di studi e dai più diversi percorsi formativi che – ben lungi dall’assicurare l’accesso al lavoro regolare – costituiscono un bacino in perenne rinnovamento di lavoro gratuito rigorosamente subordinato. Il “museo degli orrori” potrebbe andare avanti all’infinito. Alla base di tutto questo sta la nuova forma dominante nel XXI secolo: l’economia della promessa. Di che si tratta ? Settori come l’università, la comunicazione digitale, il giornalismo e l’editoria in genere chiuderebbero o entrerebbero in crisi se non potessero più fare ricorso a un enorme volume di lavoro gratuito o quasi, spesso giovanile ma ormai anche popolato da over 40. Questa erogazione di lavoro è retribuita con null’altro che con la promessa, che fa intravedere al collaboratore – in premio alla sua dedizione – la remota possibilità di una qualche contrattualizzazione (anche se a termine ….). Alla faccia della retorica meritocratica della “bravura” e della “preparazione”, oggi la ricerca del lavoro si è ridotta a una corsa di resistenza a chi lavora di più – con meno retribuzione – in vista dell’agognato “tempo indeterminato”.
Questa condizione d’inferiorità cesserebbe se coloro che non lavorano potessero fruire di un Reddito di Base Universale, cioè di un beneficio economico incondizionato e senza obbligo di accettare un lavoro, che trasformerebbe l’obbligo del lavoro basato sullo sfruttamento come è oggi, nel diritto di scelta del lavoro.
Le persone, dunque, devono poter scegliere quale lavoro fare. Ma devono anche poter scegliere se lavorare o meno, ed eventualmente come usare il loro tempo fuori da meccanismi di ricatto. Solo partendo da qui si potrà riportare alla normalità quella “maionese impazzita” che è diventato oggi il mondo del lavoro, che ha messo padri contro figli e costretto alla svendita della dignità intere generazioni, ormai felici ed esultanti quando possono dire di avere “un lavoro”. Anche se non possono assentarsi per malattie, ferie e permessi, lavorano il doppio e sono pagati la metà.
Due righe, infine, solo per rispondere alle domande classiche: “Dove si prendono i soldi?” “E’ una splendida utopia ?”. Il Reddito di Base Universale sostituirebbe l’attuale pletora di sussidi e misure assistenziali costose e inefficienti, spesso foriere di sprechi ed abusi, liberando le risorse necessarie a finanziarlo. Chi pensa che il reddito di base incondizionato (RBI) sia un’Utopia può procurarsi un biglietto aereo low cost con destinazione Utrecht, o se non ci si vuole allontanare troppo, per Zurigo, città dove sono in atto sperimentazioni del RBI. Chi può permetterselo prosegua il viaggio fino ad Oakland, nella California di mister Donald Trump: anche lì troverà il RBI. E chi vuole starsene comodamente seduto in poltrona (tenendo però acceso il cervello) almeno faccia lo sforzo di leggere il “Quaderno n. 8 /2018” dell’Associazione Basic Income Network Italia. La pubblicazione è scaricabile gratuitamente al link: https://bit.ly/2LTOHan
Stefano Giusti
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